giovedì 14 giugno 2012

- "Why did you donate your sperm?" - "Because it seemed more fun than donating blood."

Quando nel 1974 ci fu il referendum abrogativo della legge sul divorzio, una bella fetta della propaganda per il sì (quindi contraria al riconoscimento del diritto di sciogliere un matrimonio) impostò la battaglia su un argomento che stava dalle parti del ricatto bello e buono. "E i figli?" Chiedevano democristiani, post-fascisti e monarchici, paventando legioni di disadattati cronici vittime della decisione dei genitori di separare le proprie vite. Essendosi probabilmente resi conto di quanto fosse anacronistica e debole una visione della società fondata sullo scudo religioso della grazia di Cristo che si traduce in termini umani per mezzo dei sacramenti accompagnando così il cammino spirituale dei peccatori sulla terra, i cattolici più conservatori dello schieramento italiano tirarono dentro i figli come argomento concreto e sostanziale della loro linea. Perché i figli -un po' come "la vita" quando si parla di aborto o eutanasia- hanno un portato metaforico pervasivo, sono il jolly di qualsiasi argomentazione, l'assegno in bianco da presentare a qualsiasi obiezione. I figli sono i figli, non c'è bisogno d'aggiungere altro. Dopo la benvenuta vittoria dei "no", quello che successe in Italia fu più o meno questo: i figli cresciuti in coppie divorziate sono in un primo tempo cresciuti con i loro problemi e le loro difficoltà. Tuttavia col passare del tempo, tenetevi forte, il tempo tende a passare e la società italiana ha preso le misure della curva di flessione culturale implicata dalle condizioni di vita delle coppie divorziate e ha alleggerito la saccoccia di drammi ed eventuali traumi cascati addosso ai figli delle suddette coppie. La variabile del tempo è sempre fondamentale in questi casi, ma gli alfieri del conservatorismo famigliare sembrano scordarselo continuamente: oggi quelle povere vittime dell'egoismo, quei poveri agnelli dell'insufficiente carità cristiana dei genitori, quegli innocenti frutti di un sacramento successivamente violato sono divenute persone normali, figli normali, genitori normali, compagni di banco, meccanici, panettieri e agenti finanziari: hanno i loro problemi, i loro conflitti, le loro preoccupazioni, le loro soddisfazioni e le loro delusioni. Perché? Perché sono come tutti gli altri.
Quanto ai grandi temi: la società è più libera, le sue istituzioni più laiche, le donne che la costruiscono sono più indipendenti, le scelte che fanno sono più consapevoli. E i tempi legali per ottenere un divorzio sono ancora troppo lunghi. 

L'anno scorso ho visto The kids are alright, un bel film con Mark Ruffalo che racconta la storia di una famiglia in cui vivono due signore lesbiche con i loro figli, entrambi nati dalla fecondazione in vitro che ciascuna donna ha sperimentato con il medesimo donatore di sperma. Si tratta di un bel film: quando lo vidi, mi divertì molto tentare d'immaginare i pensieri che affollavano la testa del resto del pubblico. Era una proiezione estiva organizzata presso la biblioteca di un piccolo paese di provincia: non esattamente un tempio del pensiero liberale di larghe vedute.

Io non ho mai avuto particolari opinioni sul tema dell'adozione da parte di coppie gay. Mi sono sempre riconosciuto nella saggezza universale del binomio "Perché no?", riscontrando di volta in volta una certa debolezza ideologica delle posizioni espostemi. Ho sempre avuto la sensazione, insomma, che la risposta alla mia domanda circa le ragioni per negare questo diritto alle coppie omosessuali fosse: "Perché di no." Che dal punto di vista politico non mi sembra una considerazione centrale.

Ieri ho letto quest'articolo su Slate. Consiglio di leggerlo a chiunque voglia avere elementi concreti e circostanziati sul tema delle adozioni da parte di coppie omosessuali. Dopo averlo fatto, consiglio di leggere questo post, in cui sono evidenziate le faziosità e le disonestà intellettuali con cui è stata strumentalizzata la ricerca di cui si parla nell'articolo. 

mercoledì 13 giugno 2012

"Son tutti uguali"

In questi giorni sono abbastanza parziale con lui perché sto ascoltando la lettura che ha fatto de Memorie del sottosuolo e la trovo formidabile. Però voglio segnalare che Paolo Nori ha scritto una cosa intelligentissima sulla mediocrità della posizione del nuovo sindaco di Parma sul tema centrale relativo alla sua vittoria: l'inceneritore. 
Allora io mi son chiesto, ho detto: ammettendo che l’inceneritore non si faccia, il comune di Parma, finché non si arriverà (tra dieci anni? tra cinque anni?) all’auspicato e auspicabilissimo traguardo dei rifiuti zero, continuerà comunque a produrre rifiuti, e questi rifiuti, se non li bruceranno a Parma, dove li bruceranno? Ecco: il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, se risolvesse le difficoltà delle quali si è reso conto dopo essere diventato sindaco di Parma e riuscisse ad attuare questo punto centrale della sua campagna elettorale, i rifuti di Parma li manderebbe a bruciare in Olanda. A chi gli ha fatto notare che così, secondo le sue stesse teorie, aumenterebbe la mortalità dei bambini olandesi, il sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, sembra abbia risposto: «In Olanda non governo io».

martedì 5 giugno 2012

Molto Oskar, incredibilmente Oskar

Nel 1868, uno scrittore americano di nome John William Deforest ha scritto un saggio che ha avuto il merito di abbozzare le caratteristiche di un modello letterario della narrativa statunitense di grande fortuna nei decenni a venire. La sua tesi era più o meno la seguente: mentre il canone del romanzo borghese in Europa conquistava vette di grandezza mirabile grazie ai capolavori di Dickens, Hugo e ballotta realista al seguito, la più acerba scuola letteraria americana faticava a partorire opere d'ingegno capaci di raccontare in modo definitivo e memorabile le complessità e le contraddizioni interne al corpo sociale. In poche parole, nonostante qualche tentativo effettuato da Washington Irving e Herman Melville, nessuno nel nuovo mondo aveva ancora scritto il grande romanzo americano. O, come lo chiamava Deforest, The Great American Novel
Il grande romanzo americano è divenuto nel Ventesimo Secolo l'ideale di riferimento per una quantità di scrittori formidabili: da Scott Fitzgerald a De Lillo, da Faulkner a Lee, molti autori hanno cercato di produrre opere giganti, ambiziose, capaci di raccogliere forme e contenuti dell'epica a stelle e strisce. Nel frattempo, si capisce, altri scrittori prosperavano grazie a contributi meno ambiziosi, più immediati, meno ricercati, svincolati dal tenore accademico dei nomi più prestigiosi. Parlo di Flannery O'Connor e di J.D. Salinger, per esempio, ma anche di Philip K. Dick, per capirci. E non stiamo a fare le pippe al gatto cercando di stabilire gerarchie schematiche: la letteratura è ricerca dell'umano, non ci sono criteri metodologici indiscutibili in base ai quali l'ambizione di scrivere la rappresentazione narrativa di grandi fenomeni storici e sociali sia di per sè un valore aggiunto e segnalatore di qualsivoglia profondità. Gli scrittori raccontano storie: quello che ci buttano dentro è il loro modo di farlo. C'è molta eccellenza anche nelle opere di autori disinteressati -orgogliosamente o meno- alla stesura del grande romanzo americano, e che il cielo li conservi.
Poi si potrebbe aprire una polemica sulle istanze di cui si è appropriata la critica (o metacritica) decostruzionista, ma bisognerebbe anche esserne in grado e io lo sono fino a un certo punto: e stavo dicendo.
Pur essendo più giovane e più intimo frequentatore dei prodotti dell'industria culturale di massa, Jonathan Safran Foer è uno di quelli. Jonathan Safran Foer è uno di quelli che ha fissa in testa l'idea di scrivere un romanzo che non sia per tutti, ma che sia soprattutto di tutti gli americani. Io non so se lui lo sa, lo pensa, lo rivendica: ma per me è così. Dalla prodigiosa carriera universitaria ai racconti pubblicati sul New Yorker, molte caratteristiche della sua produzione guardano là, in direzione del marmo letterario, della pietra miliare, dello spartiacque fondamentale. È un furbastro? È un ambizioso? È matto come un cavallo? Non importa. Lui ci prova. Ci ha provato prevalentemente sullo slancio del ricorso a strutture narrative concentrate su scenari storici legati a drammi condivisi, dolori nazionali, tragedie collettive. Al primo giro, con lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento, al secondo con gli attentati dell'undici settembre. 
Ho letto Molto forte, incredibilmente vicino qualche anno fa. L'ho trovato un romanzo stupendo, ricco, difficilissimo da scrivere e facilissimo da leggere. Al di là delle doti e dell'attitudine di Safran Foer, che mi sembrano piuttosto indiscutibili, il romanzo ha la caratteristica di srotolare un mondo privato, intimo e chiuso in se stesso con un tocco delicato, sentimentale, mai sentimentalista, e malgrado ciò -qui sta molta della bravura di S.F.- quasi mai retorico mettendolo in relazione alle implicazioni sociali del dramma che ha sconvolto gli Stati Uniti. Non sto parlando del piano interpretativo delle metafore (Cioè quindi allora fammi capire il bambino è l'americano medio che dopo gli attentati ha perso il padre quindi ha perso la memoria quindi ha perso i valori ed è disorientato e quindi cerca se stesso per trovare un senso e poi capisce che alla fine l'importante non è trovare ma cercare?), ma della funzione evocativa svolta della quantità di storie personali e di microcosmi frenetici e incistati che Oskar frequenta durante la sua ricerca. Al di là di quanto uno si possa affezionare al nozionismo nerd coltivato dal ragazzino, al di là di quanto uno si faccia tirare dentro dal candore autistico di un orfano devastato dall'irrimediabilità della perdita e dallo strazio dei sensi di colpa, la cosa più notevole del lavoro di Safran Foer è un'altra, in fin dei conti: è aver tentato di raccontare il collettivo per mezzo di un affastellamento di questioni private, aver provato a mettere insieme il grande affresco sociale rinunciando al livello allegorico e ricorrendo invece alla tradizione più disimpegnata dello storytelling americano: aver tentato di fare il serio con storie facete. Si tratta di una rivisitazione anche molto acuta del procedimento di alcuni maestri del romanzo ottocentesco: mentre in Tolstoj e Hugo (ma anche in Fenoglio) la grande storia (le invasioni napoleoniche, o la rivoluzione francese) s'intreccia con la piccola cronaca sul piano delle vicende biografiche dei protagonisti, Safran Foer rovescia l'intreccio di cui sopra spostando il racconto sulla focalizzazione dei sopravvissuti. Non c'è la grande storia, in Molto forte, incredibilmente vicino: c'è quel che ne rimane, c'è quel che se ne ricorda, c'è chi le è scampato. Ma pur concentrandosi sui resti, il romanzo porta alla luce un sacco di America, e in una volta sola.
Il problema della trasposizione cinematografica che ne è stata fatta è di due tipi, secondo me. Il primo è relativo al ragazzino: non so se sono io, ma a me l'Oskar del film è risultato un po' antipatico. Conserva tutta la cultura precocemente enciclopedica che ha nel libro, ma perde molta della spontaneità, della piacevolezza, del gusto intellettuale per le minchiatelle. Sa un sacco di cose, ma ci si chiede quante ne sappia per curiosità spassionata e quante per esibizionismo pre-adolescenziale. Restituisce solo superficialmente, il film, le caratteristiche della relazione col padre; relazione coltivata su passatempi quotidiani ma al tempo stesso seriali, su giochetti logici appassionanti, sulla condivisione esclusiva di codici e riferimenti dotti, ma al tempo stesso carezzevoli, dolci, profondi. Privato di quella morbidezza affascinante e tenera, di quella (qui potrei citare Don Chisciotte, facciamo che lo lascio tra parentesi) rettitudine da sprovveduto vero, al personaggio di Oskar resta addosso la storia di un bambino più o meno arrabbiato col mondo perché qualcuno gli ha portato via il suo giocattolo preferito. 
Il secondo problema del film è che non c'è l'America. Ma nemmeno un po'. E andrei avanti ad argomentare, ma non saprei come. Per motivi probabilmente anche comprensibili e ragionevoli, nel film non c'è nulla di sociale, condiviso, americano. Gira quasi tutto attorno a Oskar: va bene che al cinema la sofferenza personale e i disturbi sociopatici tendono a funzionare facilmente -e qui ci sono entrambi, figuratevi- ma Oskar è un ragazzino antipatico a cui è morto il padre.

Poi vabbé, in generale il film non è nemmeno brutto, se si dimentica il romanzo da cui è tratto. Alla fine della proiezione che ho visto io, c'è stato tutto un armeggiare di pacchetti di fazzoletti di carta da parte del pubblico femminile. E quando succede così, si riconosce il valore universale della testimonianza rilasciata da un'anziana signora durante un esame di storia del cinema che ho sostenuto un paio d'anni fa: "Bello! Ho fatto tanto di quel piangere!"

lunedì 4 giugno 2012

"He shall from time to time"

Ho appena letto della scelta di Renzi di nominare due nuovi assessori, uno alla cultura e uno al bilancio. 

La motivazione offerta dal sindaco mi sembra una cosa stucchevole e paracula, però visto che sono in un periodo di botta dura per The West Wing, mi è venuto in mente che il tema lanciato da Renzi è discusso anche nella prima stagione.

Come sappiamo più o meno tutti, ogni anno il presidente americano è chiamato a tenere un discorso complessivo sullo Stato dell'Unione. A livello politico, si tratta di una delle operazioni comunicative più complesse e delicate del pianeta, attorno alla quale si raccoglie un investimento professionale sostanzialmente maniacale. Insomma, sono americani: bisogna voler loro bene così. Una delle curiosità che gira attorno allo State of the Union -di quelle che rende più spontaneo l'affetto per quei balordi a stelle e strisce- è la figura del designated survivor. Dato che al discorso dello Stato dell'Unione è presente praticamente qualsiasi rappresentante delle istituzioni americane, la prassi costituzionale prevede che un membro del governo venga individuato con lo scopo di non partecipare. Insomma, hai visto mai che una bomba o un aereo o un virus faccia saltare in aria tutta la questione, è assicurata la sopravvivenza di una personalità eletta e ufficialmente riconosciuta dall'autorità del mandato costituzionale. E c'è dentro un pezzo non trascurabile di cultura americana, in questa cosa del sopravvissuto designato ma ne parliamo un'altra volta, eh?
Dicevo, in The West Wing c'è un episodio che racconta la storia dello State of the Union; verso la fine il presidente incontra il designated survivor, e gli suggerisce di comportarsi così, nel caso in cui "succedesse qualcosa":
"You got a best friend?"
"Yes, sir."
"Is he smarter than you?"
"Yes sir."
"Would you trust him with your life?"
"Yes sir."
"That's your chief of staff."
A me va molto bene che Renzi si sforzi di comunicare in modo onesto e spontaneo: ma se vuole evitare uscite sconclusionate e sbrodolanti, gli conviene sentire Aaron Sorkin e dargli un posto da capoufficio stampa.

domenica 3 giugno 2012

"Ci si dimentica", è che siamo sbadati

Al di là del fatto che racconta molto bene la storia di Rignano, quest'articolo di Claudio Cerasa descrive perfettamente un meccanismo distorto e incattivito del rapporto fra giustizia e giornalismo. A mio avviso, si tratta di un meccanismo che produce a sua volta opinioni distorte e incattivite:
In Italia, non si sa bene perché, ma la difesa del diritto di un indagato è inversamente proporzionale alla gravità del reato contestato. Insomma, per farla breve, più è pesante il reato per cui sei accusato e meno certezze avrai che i tuoi diritti da indagato saranno rispettati. [...] Ci si dimentica di far notare che gli indagati potrebbero anche non essere colpevoli, e alla fine la sentenza viene in qualche modo socialmente e mediaticamente formulata prima ancora che arrivi un grado di giudizio. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: qualsiasi sarà l’esito del processo, chi è convinto che la strega sia una strega non avrà mai pace finché qualcuno non riuscirà a dimostrare che quella strega è davvero una strega”.